La fine di "Lu Dittu", la fine di un sogno

(Mineo, Pasqua 1848)


Più di vent’anni d’anni fa, durante la ristrutturazione di un “catoio” a Mineo, venne rinvenuta una cassa all’interno della quale era ammassata senza alcun ordine una notevole mole di documenti. Il proprietario mostrò ad alcuni studiosi locali il materiale e una raccolta colpì in particolare i giovani minioli. Era un poemetto in lingua siciliana in forma di sacra rappresentazione in 22 ottave di endecasilabi. Nel 1995 il testo fu pubblicato con il titolo redazionale de “La Quistioni”.
Si sapeva poco: scriito prima o attorno 1848 da un miniolo colto e probabilmente antiborbonico.
In realtà dopo qualche anno il busillis fu sciolto: l’autore era Antonio Capuana, zio e educatore del giovane Luigi, e il titolo del componimento era “Lu Dittu”.
“Lu Dittu” si rappresentava durante la quaresima, di anno in anno veniva composto dai poeti locali che coglievano l’occasione per criticare tra una ottava e l’altra il governo napoletano. Quando la tradizione era iniziata non si sa per certo, ma certa è la sua fine: vietato a più riprese dai Borbone, fu interrotto definitivamente dopo la fine della rivoluzione indipendentista del 1848-1849. Nel 1848 fu l’ultima rappresentazione ed autore ne fu proprio lo zio dell’illustre “Don Lisi”.
Ma cosa è “Lu Dittu”? È un dialogo poetico tra Maria, gli Angeli e i Demòni, che verte sul giudizio da dare sui “Minioli”. Si discute in un crescendo dialettico sulla “santitati” del popolo di Mineo, se sia “gente santa” da salvare o al contrario “peccatori” da dannare e se sia giusta la sua ribellione alle autorità. [Rappresentazioni simili erano diffuse un po’ ovunque in Sicilia, qualcuna si conserva, ad esempio la “Diavolata” di Adrano, NdC”]
Sulla natura del componimento prendiamo in prestito le parole di Luigi Capuana nei Ricordi d’Infanzia e di giovinezza. «Nella quaresima del 1848 venne ripresa, e per l’ultima volta, un’altra sacra rappresentazione chiamata: Lu Dittu, Il Detto, e che era stata proibita da molti anni dalla polizia borbonica, non so perché. Si faceva la sera del sabato precedente la domenica delle Palme. Nove personaggi: quattro angioli, quattro diavoli e la Madonna [In realtà i diavoli e gli angeli erano due, NdC]. Quell’anno le parti erano state scritte in ottave dialettali da mio zio canonico, e consistevano in una disputa fra angioli e diavoli; la Madonna giudicava inappellabilmente. Gli angioli affermavano che i mineoli - gli abitanti di Mineo - erano tutti cosa della Madonna, i soli degni di salire difilati in paradiso; i diavoli, si capisce, sostenevano precisamente il contrario, con satira molto mordace delle varie classi cittadine e allusioni scottanti. La gente applaudiva i diavoli perché facevano ridere. La Madonna però dava loro torto e li costringeva a tacere. La rappresentazione avveniva di sera, a lume di torce a vento. Gli attori cavalcavano mule e cavalli condotti a mano da contadini. Gli angioli, al solito, con ali di cartone, elmi, corazze e spade sguainate. I diavoli con maschere orrende, e vesti di tela cruda maculata come pelle di tigre, mandavano a ogni po’, tra un’ottava e l’altra, grandi fiammate di pece greca.»
Senza nulla togliere alla “Scis’a Cruci”, rappresentazione discretamente diffusa e comune a in tutto il mondo (cattolico), sarebbe una cosa veramente interessante e giusta, oltre che originale ridare dopo 170 anni vitalità al “Dittu” di don Antonio Capuana.
Il testo del “Dittu” è inserito in Antonio Capuana, “Opere” edito nel 2015 dal Centro Culturale Permanente “Paulu Maura” di Mineo [scaricabile da http://www.paulumaura.it/pdf/151227_antoniocapuana_opere.pdf]