Profughi a Mineo: una storia (quasi) dimenticata

(1918-Oggi)



Questa è una storia vecchia. Sono rimasti in pochi a ricordarla, e quei pochi confondono i contorni della vicenda. Gli esodi epocali, non sono mai straordinari, non lo sono mai stati, spesso sono l’effetto banale di banali tragedie collettive. Le guerre. Le persecuzioni. Scorrete l’elenco telefonico di una qualsiasi città francese e sottolineate con matita rossa i nomi d’origine spagnola: una parte sono discendenti di quelli che, con un eufemismo tutto francese, sono chiamati migranti “economici”; moltissimi sono i nipoti di chi alla fine degli anni trenta scappò dalla Spagna franchista post guerra civile[1] Alla fine della prima e della seconda guerra mondiale milioni di persone si sono trasferite da un capo all’altra dell’Europa per sfuggire a persecuzioni politiche, razziali, religiose. L’Europa si è fatta anche attraverso questo rimestamento etnico. Gli esodi di massa non sono mai neutri. Il paese che accoglie è sempre in difficoltà, spesso in profonda crisi identitaria ed economica, la convivenza è ed è stata tutt’altro che facile. L’arrivo in massa di rifugiati da Africa e Medioriente di oggi non è una novità, non è la prima e non sarà l’ultima. Le frontiere sono costruzioni mentali dell’uomo, il pianeta è uno e tutti ne siamo cittadini. Queste sono storie vecchie. Nemmeno i discendenti ne serbano memoria: armeni, tedeschi dei sudeti, spagnoli e catalani, istriani e dalmati, italiani d’Africa, piés noires d’Algeria, polacchi e ebrei... Ma quella che vorrei ricordare è una storia che ci è vicina, molto vicina, una storia che avrebbe ancora molto da insegnare al nostro cuore e alla nostra mente se solo si volesse ascoltare. Qualche anno fa, per terra, abbandonata, trovai una scheda dell’archivio dei residenti di Mineo, quella che serviva per il rilascio della carta d’identità, niente di più insignificante, se non fosse che era di una ragazza dal cognome palesemente veneto. Era vecchia, la scheda, tredici luglio del ‘48. I lineamenti, indubbiamente a causa delle tecniche fotografiche dell’epoca, potevano essere quelli di una siciliana, ma il nome, patronimico e matronimico, il luogo di nascita e la residenza raccontavano un’altra storia. Evelina B. era nata a Cassier (Treviso) e abitava a Mineo, in Piazza Buglio (sede della casa comunale) perché profuga. A Mineo (in genere nei paesini) furono in molti a spostarsi da Catania (dalle grandi città) per paura dei bombardamenti. Ma nel 1948 la guerra era finita da 3 anni.[2] Chi era Evelina B. figlia di Ermenegildo? Da dove veniva, chi l’aveva portata a Mineo? Profughi dalle colonie dell’Africa Orientale Italiana? Dalla Libia? Dall’Istria, dal Territorio Libero di Trieste? Chissà. Ma come ci ricorda Padre Giuseppe Gambuzza i profughi a Mineo giunsero anche in occasione del primo conflitto mondiale: “La fine della guerra a Mineo fu salutata con grande sollievo e tanta gioia, e con una calorosa dimostrazione di affetto e simpatia verso i numerosi profughi di quelle terre, che avevano trovato ricovero anche a Mineo, nei locali delle ex badie di S. Benedetto e di S. Maria degli Angeli.” [3] Riguardo a quest’ultimo Monastero abbiamo un’interessante testimonianza scritta nel “Libro della Numerazione delle Anime” della parrocchia di Santa Maria Maggiore (1918) che così recita: “Il Monastero di Santa Maria degli Angeli denominato Nuovo, chiuso nel 1916 per la deficienza delle Religiose successa per l’abolizione governativa. Era dell’Ordine Benedettino” In quest’anno furono refugiati i profughi della Provincia di Vicenza e Treviso in numero di ottanta. Oggi ve ne sono quattro.” Non so chi ancora ha memoria della loro presenza nel paese, ma ricordo che, parlando dell’erta sotto il Castello, degli anziani mi raccontarono che era coperta di alberi piantati da Lui (sì proprio Lui). La cosa mi faceva sorridere: immaginavo il Mussolini a torso, armato di pala, piantare abeti e cipressi, appianare viottoli e scerbare con virile e romana irruenza. Ma alla fine quegli alberi furono decimati, dicevano, dai profughi che li usarono per cucinare e riscaldarsi. Non so dove fossero alloggiati: alberghi a 5 stelle a Mineo, allora come ora, non ce ne erano. Forse nei locali della scuola (“Totò cerca casa” docet) o nei locali dell’orfanotrofio, o quelli della colonia di montagna (gli attuali 511 m s.l.m. anche prima dell’euro dovevano essere molti di più). Chissà. Quel che impariamo è che tutti, a turno, si è ospiti e si è ospitanti, profughi e accoglienti. Veneti, trentini, friulani, siciliani o ghanesi. Che l’incontro e il dialogo fra chi c’è e chi arriva,ci rende tutti più protetti. Un giorno può darsi che anche noi saremo costretti ad andar via, migranti economici o rifugiati (quale sarà mai la differenza in un mondo in cui la finanza è un’arma di distruzione di massa!?), e se quel giorno ci sarà qualcuno a ricordarci che non siamo bene accetti, ce ne saranno dieci disposti ad ascoltarci e a parlarci, qualcuno che alzando le spalle si rimboccherà le maniche, ancora una volta, per dare una mano a chi è “momentaneamente” più sfortunato di noi.

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[1] Si stimano in 440,000 persone i profughi spagnoli al 1939.
[2] In Sicilia da 5.
[3] G. Gambuzza, “Mineo nella storia, nell'arte e negli uomini illustri”, Caltagirone, 1999.

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