Leotta Buglio

(Mineo 1518 - dopo il 1558 [?])

L'ecclesiastico "eretico"

La famiglia Buglio ha dato a Mineo oltre al poeta Ottavio, al sinologo Ludovico, a Giovanni Antonio politico e diplomatico vissuto a cavallo del XVI secolo anche il figlio di quest'ultimo Leotta.
Pirri così ne parla: «Leotta Bulliomius, seu de Buglio, Joannis Antonii Burgii Baronis, in Hungaria Apostolici Legati filius, ob Patris promerita, a Clemente VII. Rom. Pont. Archidiaconus Syracusanus anno 1530, mox Messanensis Decanus, Catanae etiam Archidiaconus, nostrae tandem Ecclesiae Canonicus & Thesaurarius anno 1537. adlectus Thesauraria se abdicavit favore Joannis Mingrini, ac anno 1540. infelici exitu periit.»[1]
"BUGLIO, Leotta (o Aliotta) - Nato in Mineo (Catania) nel 1518 c. da Giovanni Antonio, barone di Burgio, il B. (che derivava il nome di Leotta dal capostipite del ramo siciliano della famiglia di origine normanna) fu indirizzato, essendo cadetto, alla carriera ecclesiastica e, ancor dodicenne, nel 1530, per il favore goduto dal padre presso il papa mediceo, fu nominato arcidiacono delle chiese di Catania e di Siracusa, decano di quella di Messina. A distanza di venti anni la sua fortuna era crollata e annientata la sua reputazione ecclesiastica e nobiliare. Il tribunale dell'Inquisizione di Sicilia lo aveva accusato di eresia luterana. Fu riconciliato alla Chiesa, dopo essere stato spogliato delle dignità ecclesiastiche e di tutti i beni, nell'autodafè celebrato nella piazza della Loggia di Palermo il 5 luglio del 1551, nel quale furono puniti come "luterani" parecchi sacerdoti di Vizzini, di Lentini e di Messina e furono bruciati vivi l'eremita antitrinitario, Antonio Caruso di Militello e il predicatore luterano frate Francesco Pagliarino di Messina. Nello stesso giorno furono puniti il fratello del B. Ludovico, divenuto barone di Burgio il 26 genn. 1546, dopo la morte del padre, e il notaio Alessandro Jaluna di Mineo, che si erano opposti all'opera del S. Uffizio.
Definire il delitto di eresia del B. è difficile per la frequenza con cui ricorre il termine "luterano"nei memoriali degli inquisitori siciliani. Si possono avanzare alcune ipotesi. Il B. potrebbe aver subito l'influenza delle dottrine valdesiane, diffuse negli ambienti colti dell'isola nel decennio 1540-1550, alle quali era stato sensibile anche il vescovo di Catania, Nicola Maria Caracciolo, lettore degli scritti del Valdés, delle prediche dell'Ochino e del Beneficio di Cristo. Del resto il padre, che dopo una missione in Inghilterra presso Enrico VIII s'era stabilito a Palermo come nunzio di Paolo III presso la corte vicereale, scrivendo al cardinale A. Farnese il 9ag. 1538, aveva denunciato in maniera dura la corruzione dei monasteri siciliani, che "erano più presto case e ridutti di donne che non ponno maritarse, che non monasteri, e che della professione che fanno, non ne servano stanza...". Era stato altresì un ammiratore di Bernardino Ochino e un convinto fautore della riforma disciplinare della Chiesa. Il 2 maggio 1539, in nome del pretore e dei giurati di Palermo, aveva perorato la causa della città per ottenere le prediche dell'Ochino per la quaresima dell'anno successivo, affinché "ogni un di noi cum lo suo arregardo et esempio diventi cappuccino in casa propria". Il fratello Ludovico, a sua volta, essendo in Roma nel 1546, al servizio del duca Ottavio Farnese, era divenuto molto amico del cardinale R. Pole e di Vittoria Colonna, che lo stimava "pio cristiano" e "uomo da bene". Fu lui a presentare B. Spadafora al Pole.
Un'altra spiegazione dell'accusa potrebbe risalire alla protezione accordata dal fratello Ludovico alla Compagnia di Gesù, introdotta in Sicilia dal vicerè don Giovanni de Vega nel 1548 per contrapporla all'Inquisizione, i cui metodi intransigenti con le terribili conseguenze fiscali della condanna offendevano gli intellettuali più aperti e i nobili non iscritti al foro del S. Uffizio. Ritroviamo, infatti, il barone di Burgio fra gli appartenenti alla Compagnia della Grazia, fondata a Roma da Ignazio di Loyola: "D. Baronus del Burgio, custos Ill.mi Ducis Octavii Farnesii". Comunque stiano le cose, se per inclinazione alle dottrine riformistiche, oppure per avversione ai metodi repressivi inquisitoriali, il B. nel 1558 perdeva definitivamente incarichi e benefici ecclesiastici." [2]

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[1] Rocco Pirri, "Notitia regiae, et imperialis capellae Collegiatae Sancti Petri sacri, et regi i palatii Panormitani", Palermo, 1733.
[2] Testo tratto dal Dizionario Biografico della Treccani.